Per Tarantino la Hollywood di fine anni
sessanta era come il vecchio west, e gli attori da B-movie e i loro
stuntman i comboy di quel mondo.
Così infatti sembrano muoversi i
protagonisti interpretati da Brad Pitt (lo stunt) e Leonardo Di
Caprio (la ex-star), tra set cinematografici e ranch della frontiera.
E l'arrivo di Pitt al ranch occupato dalla famiglia Manson (la setta
che nel '69 compì degli omicidi tra cui quello dell'attrice Sharon
Tate), ha tutti gli elementi del classico arrivo dello straniero
giustiziere nell'ennesimo villaggio del far west che ha qualcosa da
nascondere. Parallelamente Di Caprio nella parte dell'attore in crisi
sembra un cow boy decadente in un western crepuscolare.
E non è un caso se è questo l'unico
genere cinematografico in cui riesce a trovare ingaggi.
Ma nonostante queste premesse, le
continue citazioni di Sergio Leone, e il fatto che sia di Tarantino,
questo è uno dei film del regista americano con meno azione, se si
toglie l'esplosivo ultimo atto.
Infatti, alla fine, è forse la sua
opera più personale, pensato in primis per essere un sentito
tributo: da una parte un omaggio ad un mondo che non c'è più,
dall'altra un omaggio ad una persona che non c'è più.
Il mondo che non c'è più è proprio
quella fetta di immaginario composto da cinema di serie B, fatta in
USA ma anche in Italia con registi come Corbucci, e da un pezzo di
televisione con telefilm classici che pocco hanno a che fare con la
serialità odierna di Netflix. E la stessa categorizzazione “di
serie B”è più che altro una tipica caratterizzazione classista da
società capitalista, in cui anche i critici più esperti a volte ci
cadono. Tarantino non ci è mai cascato (al costo pure di rivalutare
a volte ciò che non può essere rivalutato), ed è così che mette
sullo schermo questa ballata di un “ultimo” che fa lo stuntman,
vive in un camper, e fa da assistente ad un altro ultimo, attore
fallito, che ha la villa a Bel Air, ma non se la può mantenere. La
villa ovviamente è uno status symbol, e lì a fianco c'è chi il
successo lo vive veramente: Roman Polanski e la sua bella moglie
Sharon Tate. E poche colline più in là ci sono gli invasati figli
dei fiori della Famiglia Manson che predicano libero amore ma che
vogliono fare esplodere la società classista e guerrafondaia. Ma
Tarantino non è Tim Burton, e non è nemmeno il Todd Philips di
Joker, e per i freak non ha empatia. O almeno non per questi freak,
visto che i loro omicidi hanno posto metaforicamente fine ai sogni
degli anni sessanta.
La persona che non c'è più è Sharon
Tate, la vittima più illustre di quei omicidi. L'omaggio che le fa
Tarantino vale più di un classico biopic. Grazie anche alla bravura
di Margot Robbie che la interpreta, qui la Tate diventa incarnazione
della bellezza e della gioia del cinema. Basti la scena in cui va a
vedere la stessa pellicola da lei interpretata, con la vera Sharon
sullo schermo, e la Robbie in sala per capire come questo film sia
una celebrazione di questa arte e di quella donna allo stesso tempo.
Peccato che questo personaggio non
incontri, se non alla fine, Pitt e Di Caprio: Tarantino ha il pallino
di non rispettare mai i canoni del racconto, affascinato dalle trame
parallele che si limitano a sfiorarsi (Unglorious Basterds, Pulp
Fiction), e non sempre è un pregio. Ma per il resto vi sono
montaggio, fotografia e colonna sonora da manuale di cinema. Guardare
C'era una volta ...ad Hollywood è una gioia appagante per chi
ama i film, così come era fastidiosa la visione di Hateful Height.
Per la parte della recitazione non si
può che incensare i tre attori protagonisti: la già citata Margot
Robbie; Leonardo Di Caprio in un già collaudato personaggio schiavo
degli eccessi; ma soprattutto Brad Pitt, mai così efficace dai tempi
di Fight Club.
Sulla trama non scriviamo nulla di più,
per evitare problemi a chi non lo ha ancora visto. Sappiate comunque
che questo è un film ambientato nello stesso universo alternativo,
creato da Quentin, in cui Hitler moriva ucciso in un attacco dentro
un cinema. Per cui non date nulla per scontato.